martedì 14 maggio 2013

Ogni volta che socchiudiamo gli occhi



KUBLAI:– Non so quando hai avuto il tempo di visitare tutti i paesi che mi descrivi. A me sembra che tu non ti sia mai mosso da questo giardino.
POLO:– Ogni cosa che vedo e faccio prende senso in uno spazio della mente dove regna la stessa calma di qui, la stessa penombra, lo stesso silenzio percorso da fruscii di foglie. Nel momento in cui mi concentro a riflettere, mi ritrovo sempre in questo giardino, a quest’ora della sera, al tuo augusto cospetto, pur seguitando senza un attimo di sosta a risalire un fiume verde di coccodrilli o a contare i barili di pesce salato che calano nella stiva. 
KUBLAI:– Neanch’io sono sicuro d’essere qui, a passeggiare tra le fontane di porfido, ascoltando l’eco degli zampilli, e non a cavalcare incrostato di sudore e di sangue alla testa del mio esercito, conquistando i paesi che tu dovrai descrivere, o a mozzare le dita degli assalitori che scalano le mura d’una fortezza assediata.
POLO:– Forse questo giardino esiste solo all’ombra delle nostre palpebre abbassate, e mai abbiamo interrotto, tu di sollevare polvere sui campi di battaglia, io di contrattare sacchi di pepe in lontani mercati, ma ogni volta che socchiudiamo gli occhi in mezzo al frastuono e alla calca ci è concesso di ritirarci qui vestiti di chimoni di seta, a considerare quello che stiamo vedendo e vivendo, a tirare le somme, a contemplare di lontano. 
KUBLAI:– Forse questo nostro dialogo si sta svolgendo tra due straccioni soprannominati Kublai Kan e Marco Polo, che stanno rovistando in uno scarico di spazzatura, ammucchiando rottami arrugginiti, brandelli di stoffa, cartaccia, e ubriachi per pochi sorsi di cattivo vino vedono intorno a loro splendere tutti i tesori dell’Oriente. 
POLO:– Forse del mondo è rimasto un terreno vago ricoperto da immondezzai, e il giardino pensile della reggia del Gran Kan. Sono le nostre palpebre che li separano, ma non si sa quale è dentro e quale è fuori.

lunedì 24 dicembre 2012

Stille Nacht

Il senso del silenzio

 «In realtà, il Bambino bussa alla porta di questo nostro mondo. Il Bambino bussa»

«Si può tacere con le labbra ed essere terribilmente rumorosi dentro... Fare silenzio dunque significa sviluppare i sensi interiori, il senso della coscienza, il senso di ciò che è eterno in noi, la capacità di ascoltare Dio»...
«Si dice dei dinosauri che si siano estinti perché si erano sviluppati in maniera sbagliata: molta corazza e poco cervello, molti muscoli ma poco intelletto. Non ci stiamo per caso sviluppando anche noi in una direzione erronea: molta tecnica, ma poca anima? Una spessa corazza di possibilità materiali, ma un cuore sempre più vuoto? Un più o meno lento spegnersi della capacità di percepire in noi la voce di Dio, di cogliere e di riconoscere il bene, il bello, il vero? Non è assolutamente tempo di una correzione di rotta della nostra “evoluzione”?»

Fare silenzio per riconoscere Dio nel Bambino della stalla, ma anche per sentire la sua voce che ci chiama, mentre bussa alla nostra porta. «In realtà, il Bambino bussa alla porta di questo nostro mondo. Il Bambino bussa» ...
Joseph Ratzinger

lunedì 10 dicembre 2012

Il senso dei sensi [1]


La sensibilità si apre al riconoscimento di quanto nell’ambiente.

Luci della città (City Lights) 1931, Charlie Chaplin

E toccandogli la mano lo riconosce, dicendogli: "Ora posso vedere"

Il tatto non si limita solo a rilevare la presenza di stimoli dovuti al contatto della superficie cutanea con oggetti esterni. Grazie al nostro corpo tattile siamo in un rapporto fisico causale significativo con le cose materiali o con il mondo circondante, sia inanimato che vivente.

The Miracle Worker, Arthur Penn, 1962


Inoltre, la percezione integrata del proprio corpo consente pure la percezione dei suoi confini, punto importante per la coscienza della propria identità (“ finisco -io, la mia persona- dove finisce il mio corpo”) e per la percezione del mondo esterno con cui possiamo interagire.

Nei prossimi post, lavoreremo in torno ai sensi più intenzionali (vista e udito), che sono primariamente rivolti all’esterno.

domenica 18 novembre 2012

Il postino e Pablo Neruda



"Lei crede che tutto il mondo, voglio dire tutto il mondo, con il vento, i mari, gli alberi, le montagne, il fuoco, gli animali, le case, i deserti, le piogge... Lei crede che il mondo intero sia metafora di qualcosa?" Il postino, 1994

sabato 17 novembre 2012

Cos’è l’esperienza estetica


Nei primi post abbiamo girato in torno al concetto d’itinerario. In sintesi, la domanda su Dio interpella l’uomo nella sua intimità ed esige una risposta che costituisce quanto di più personale c’è nell’essere umano, e tale risposta si ripercuote in maniera decisiva sia sulla comprensione di se stessi e della realtà circostante.
Trovare una risposta alla domanda su Dio esige penetrare in fondo in essa, anche e soprattutto con il pensiero... ma non come chi cerca di risolvere un problema di matematica, se non come chi si addentra nel mistero. Qual è la differenza? “Il problema è qualcosa che si incontra, che sbarra la strada. Esso è interamente davanti a me. Invece il mistero è qualcosa in cui mi trovo impegnato, la cui essenza perciò è di non essere tutto intero davanti a me” (G. Marcel, Essere e avere).
Ora, e senza lasciare l’idea del itinerario, forse 'e arrivato il momento di riflettere in questo blog in torno all’esperienza dell’apertura (e concretamente sull’esperienza estetica come porta d’ingresso alla domanda su Dio). L’uomo infatti è un essere aperto a se stesso e all’alterità. In questo senso si dice che l’apertura è propria di un essere dotato di interiorità e intimità; e che l’apertura indica che l’uomo non è un’entità rinchiusa in se stessa, ma qualcuno a cui compete trascendere e relazionarsi con l’alterità.

Concretamente, fra le diverse modalità di apertura, suggerirei di concentrarci sull’esperienza estetica. Per incorniciare quanto ci proponiamo, vorrei proporre un primo post con qualche riflessione del Prof. Romera su questo argomento:

L. Romera, L'uomo e il mistero di Dio:
L’opera d’arte commuove, e lo fa perché il soggetto si sente interpellato da essa. L’opera — una composizione musicale o poetica, un quadro o una rappresentazione teatrale si rivolge al lettore, allo spettatore, e gli richiede — un atteggiamento attivo. Lo interpella, sollecitando una risposta interiore. L’opera può suscitare nel soggetto interrogativi radicali che possono rimuovere precedenti convinzioni; può condurlo a riconsiderare l’esistenza o confermarlo nella sua comprensione attuale, esortandolo ad un ulteriore approfondimento. L’opera d’arte stimola l’intelligenza e incita la libertà a esercitarsi nell’interiorità del soggetto, per ripercuotersi poi nell’azione esterna. Il “Guernica” di Picasso o “El Cristo” di Velàzquez sono interpretati per quello che sono unicamente quando il soggetto riesce a penetrare nell’ordine di cose che il quadro rappresenta e in cui l’opera d’arte è veramente opera d’arte. Questa penetrazione richiede intelligenza e libertà; senza di essa, il quadro è un mero oggetto decorativo o un semplice reperto di un’epoca o di un evento storico. Qualcosa di analogo accade con la lettura di un’opera maestra della letteratura, con l’ascolto di una composizione musicale o con la contemplazione di un’opera architettonica’.

La commozione che l’opera suscita non si limita alla sfera affettiva o sensibile; essa coinvolge anche l’intelligenza e la libertà, nella misura in cui è la persona in quanto tale ad essere chiamata in causa. Per questo l’esperienza estetica, quando è intensamente e autenticamente vissuta, è un’esperienza di apertura a una dimensione alla quale il soggetto era precedentemente chiuso, oppure è un’esperienza di apertura ulteriore come approfondimento di una dimensione alla quale era già aperto.

L’apertura consente un’ermeneutica più corretta dei fatti e spinge la libertà alla contrizione. I modi in cui si realizza un’apertura sono molto vari e in essi la persona è interpellata nella sua libertà. In altri termini, l’apertura avviene soltanto quando la persona si decide ad assumere quanto l’apertura implica. In questo senso, l’esperienza estetica consiste in un’esperienza ermeneutica peculiare in cui l’interpretazione conduce a situarsi in un orizzonte di comprensione dell’esistenza più largo, o a penetrare ulteriormente in esso, spingendo il soggetto a una risposta libera. L’apertura di cui parliamo implica il riconoscimento di una dimensione dell’esistenza che suppone, in qualche modo, un atteggiamento critico, in quanto richiede la consapevolezza dell’in sufficienza dell’orizzonte di comprensione.

sabato 10 novembre 2012

Costantino Kavafis, Itaca



Con grande piacere pubblico il poema di Kavafis
suggerito da Lorenzo nel suo commento al testo di Buzzati.


Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere d'incontri
se il pensiero resta alto e il sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo
né nell'irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l'anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga
che i mattini d'estate siano tanti
quando nei porti - finalmente e con che gioia -
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche aromi
penetranti d'ogni sorta, più aromi
inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.
Sempre devi avere in mente Itaca
- raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo,per anni, e che da vecchio
metta piede sull'isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos'altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
Già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

lunedì 29 ottobre 2012

Dino Buzzati, I sette messaggeri

Penso talora che la bussola del mio geografo sia impazzita e che, credendo di procedere sempre verso il meridione, noi in realtà siamo forse andati girando su noi stessi, senza mai aumentare la distanza che ci separa dalla capitale; questo potrebbe spiegare il motivo per cui ancora non siamo giunti all'estrema frontiera.


Ripartirà per l'ultima volta. Sul taccuino ho calcolato che, se tutto andrà bene, io continuando il cammino come ho fatto finora e lui il suo, non potrò rivedere Domenico che fra trentaquattro anni. Io allora ne avrò settantadue. Ma comincio a sentirmi stanco ed è probabile che la morte mi coglierà prima. Così non lo potrò mai più rivedere …
Eppure, va, Domenico, e non dirmi che sono crudele! Porta, il mio ultimo saluto alla città dove io sono nato. Tu sei il superstite legame con il mondo che un tempo fu anche mio. I più recenti messaggi mi hanno fatto sapere che molte cose sono cambiate, che mio padre è morto che la Corona è passata a mio fratello maggiore, che mi considerano perduto, che hanno costruito alti palazzi di pietra là dove prima erano le querce sotto cui andavo solitamente a giocare. Ma è pur sempre la mia vecchia patria.
Tu sei l'ultimo legame con loro, Domenico ... Dopo di te il silenzio, o Domenico, a meno che finalmente io non trovi i sospirati confini. Ma quanto più procedo, più vado convincendomi che non esiste frontiera.
Non esiste, io sospetto, frontiera, almeno non nel senso che noi siamo abituati a pensare. Non ci sono muraglie di separazione, né valli divisorie, né montagne che chiudano il passo. Probabilmente varcherò il limite senza accorgermene neppure, e continuerò ad andare avanti, ignaro.
Per questo io intendo che Ettore e gli altri messi dopo di lui, quando mi avranno nuovamente raggiunto, non riprendano più la via della capitale ma partano innanzi a precedermi, affinché io possa sapere in antecedenza ciò che mi attende.
Un'ansia inconsueta da qualche tempo si accende in me alla sera, e non è più rimpianto delle gioie lasciate, come accadeva nei primi tempi del viaggio; piuttosto è l'impazienza di conoscere le terre ignote a cui mi dirigo.
Vado notando - e non l'ho confidato finora a nessuno - vado notando come di giorno in giorno, man mano che avanzo verso l'improbabile mèta, nel cielo irraggi una luce insolita quale mai mi è apparsa, neppure nei sogni; e come le piante, i monti, i fiumi che attraversiamo, sembrino fatti di una essenza diversa da quella nostrana e l'aria rechi presagi che non so dire.
Una speranza nuova mi trarrà domattina ancora più avanti, verso quelle montagne inesplorate che le ombre della notte stanno occultando. Ancora una volta io leverò il campo, mentre Domenico scomparirà all'orizzonte dalla parte opposta, per recare alla città lontanissima l'inutile mio messaggio.

venerdì 19 ottobre 2012

Italo Calvino, Le città invisibili

« Anche le città credono d'essere opera della mente o del caso, ma né l'una né l'altro bastano a tener su le loro mura. D'una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda»


Dopo il tramonto, sulle terrazze della reggia, Marco Polo esponeva al sovrano le risultanze delle su, ambascerie. D'abitudine il Gran Kan terminava le sue sere assaporando a occhi socchiusi questi racconti finché il suo primo sbadiglio non dava il segnale al corteo dei paggi d'accendere le fiaccole per guidare il sovrano al Padiglione dell'Augusto Sonno. Ma stavolta, Kublai non sembrava disposto a cedere alla stanchez­za. - Dimmi ancora un'altra città, - insisteva.
- ... Di là l'uomo si parte e cavalca tre giornate tra greco e levante... - riprendeva a dire Marco, e a enu­merare nomi e costumi e commerci d'un gran numero di terre. Il suo repertorio poteva dirsi inesauribile, ma ora toccò a lui d'arrendersi. Era l'alba quando disse: -Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco.
- Ne resta una di cui non parli mai.
Marco Polo chinò il capo.
- Venezia, - disse il Kan.
Marco sorrise. - E di che altro credevi che ti par­lassi?
L'imperatore non batté ciglio. - Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome.
E Polo: - Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia.
- Quando ti chiedo d'altre città, voglio sentirti dire di quelle. E di Venezia, quando ti chiedo di Venezia.
- Per distinguere le qualità delle altre, devo parti­re da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia.
- Dovresti allora cominciare ogni racconto dei tuoi viaggi dalla partenza, descrivendo Venezia così co­m'è, tutta quanta, senza omettere nulla di ciò che ri­cordi di lei.
L'acqua del lago era appena increspata; il riflesso di rame dell'antica reggia dei Sung si frantumava in ri­verberi scintillanti come foglie che galleggiano.
- Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano, - disse Polo. - Forse Venezia ho paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse, parlando d'altre città, l'ho già perduta a poco a poco.

Illustrazione: William Turner, S. Giorgio Maggiore, 1819

giovedì 11 ottobre 2012

Ray Bradbury, Fahrenheit 451


Le porte si aprirono.
Montag immaginò migliaia di facce che spiavano nei giardinetti davanti alle case, nei vicoli dietro, nel cielo, facce nascoste dalle tendine, pallide, facce spaurite dalla notte, come bigi animali in agguato sulla soglia di tane elettriche, facce dai grigi occhi incolori lingue grige, pensieri grigi che si affacciavano alla carne torpida del volto.
Ma lui era ormai al fiume.
Lo toccò, soltanto per avere la certezza ch'era reale.
Scese nell'acqua e si denudò nelle tenebre, si sparse il corpo, le gambe, le braccia, il capo di liquore puro; ne bevve e ne aspirò il resto nelle nari. Quindi indossò i vecchi indumenti di Faber, le sue vecchie scarpe, gettò le proprie vesti nel fiume e stette a vederle fuggire via rapide, già semisommerse. Dopo di che, stringendo la valigia, avanzò nel fiume fino a non toccare più, e la corrente lo trascinò via, nelle tenebre.
Era già trecento metri a valle del fiume, quando il Segugio arrivò sulla sponda. In alto, i grandi ventilatori degli elicotteri si libravano clamorosi. Una tempesta di luce si abbatté sul fiume e Montag si sommerse sotto quella gran luce, come se il sole si fosse affacciato tra le nubi. Sentì il fiume trascinarlo ancora più avanti lungo il suo corso, nella zona d'ombra.
Quindi la luce deviò di nuovo verso la riva, gli elicotteri dirottarono verso la città, come se avessero trovato un'altra pista; erano già lontani, scomparivano nella notte.. Il Segugio era scomparso. Non c'era che il fiume freddo, ora, e Montag che vi galleggiava improvvisamente in pace, lontano dalla città, dalle luci, dalla caccia all'uomo, lontano da tutto.
Gli sembrava di essersi lasciato alle spalle un palcoscenico gremito di attori. Era come se si fosse lasciato dietro la grande seduta spiritica con tutti i suoi fantasmi sussurranti. Si trasferiva da un'irrealtà spaventevole a una realtà irreale, proprio perché nuova.
La nera sponda del fiume scivolava via a misura che il fiume lo trasportava per la campagna, tra le alture. Per la prima volta da una dozzina d'anni a quella parte, le stelle spuntavano sopra il suo capo, in grandi processioni di fuoco ruotante. Vedeva un'immensa forza distruttrice di stelle formarsi nel cielo e minacciar di piombargli sopra e stritolarlo.
Galleggiava supino, facendo il morto, quando improvvisamente la valigia, empitasi d'acqua, sprofondò; il fiume era mite e benevolo, fluiva lontano dalla gente che divorava ombre a colazione e vapore a desinare e fumide esalazioni a pranzo. Il fiume era straordinariamente reale, lo sosteneva a suo agio e gli dava finalmente il tempo, la comodità, il modo di riflettere su quel mese, quell'anno, tutta una esistenza di anni.
Testo: Ray BradburyFahrenheit 451  (1953)
Illustrazione: Edward Hopper, Rooms by the Sea (1951)